C’è un divario di quasi 20 punti percentuali tra il tasso di occupazione maschile e quella femminile. Gli ultimi dati Istat ci dicono che è del 65,7% per gli uomini e del 47,2% per le donne. Il che vuol dire, tradotto in altri termini, che in Italia lavora meno di una donna su due. Non è una sorpresa, anche se si sta registrando una lieve inversione di tendenza che ci proietta scenari nuovi all’interno delle famiglie, in cui nella coppia, “è lei a portare lo stipendio a casa”. Il dato però va osservato anche nel lungo termine. Perché se è vero che negli ultimi mesi il dato di occupazione femminile segna un timido segno positivo, c’è anche da considerare il tipo di contratto con cui si viene assunte. Che potremmo anche riassumere in una parola: precario. Ci sono molte mamme con cui parlo davanti scuola che spesso, fin troppo spesso, mi dicono: “sono in attesa del rinnovo”. Rinnovo che purtroppo viene quasi sempre deciso all’ultimo minuto. Per non parlare della differenza di genere nei compensi che si quantifica con un -10% nelle buste paghe femminili. Pensate che su 145 Paesi analizzati dal World Economic Forum, l’Italia si colloca in posizione 109 per quanto riguarda il “Gender gap” a parità di ruolo, ovvero la differenza di stipendio nel caso in cui si svolga lo stesso lavoro.
Ancora più preoccupante è un altro dato, che viene fuori da una ricerca svolta da ManagerItalia in collaborazione con AstraRicerche. Il 71% degli italiani (contro il 50% della media europea) ritiene che gli uomini siano meno bravi delle donne… nelle faccende domestiche! Alla faccia dei Rapporti AlmaLaurea che ci dicono che in Italia 6 laureati su 10 sono donne, che hanno concluso gli studi in tempi più brevi e con voti più alti. Ma tornando a noi… un po’ più rassicurante è il fatto che meno di un italiano su due (43%) pensa che l’uomo debba mettere la carriera al primo posto. I nostri colleghi nel Vecchio Continente ci battono ancora con una percentuale media del 29%.
Purtroppo ci perseguita lo stereotipo dei figli visti come un ostacolo per il lavoro. Un ostacolo che porta molte donne, dopo un paio di anni tra maternità, rinnovo dei contratti e riduzione del salario, ad abbandonare il lavoro.
Capitolo a parte merita la “mia” categoria, quella delle libere professioniste. Vi riporto qui uno stralcio dell’ultimo rapporto del Censis in merito:
“Negli anni più recenti è aumentata la schiera delle libere professioniste, con un saldo positivo di 100.000 occupate tra il 2008 (325.000) e il 2014 (426.000). Si è trattato di nuova occupazione (il saldo del periodo è pari a 63.000 neo-occupati), ma anche di un travaso da altre forme di lavoro. Fatto 100 il numero complessivo di occupate al 2008, il dato riferito al 2014 risulta sostanzialmente invariato (100,7), mentre è stata netta la crescita delle libere professioniste (130,9). La sfida cui oggi è chiamato il mondo libero-professionale è di rafforzare le tutele e gli strumenti di assistenza a sostegno dei lavoratori, in particolare dell’universo femminile. Problemi connessi alla salute, situazioni legate alle responsabilità familiari, la maternità hanno coinvolto nel corso degli ultimi cinque anni il 37,8% delle professioniste, eventi che in un elevato numero di casi finiscono poi per ripercuotersi direttamente o indirettamente sulla sfera professionale: il 42,7% di quante si sono trovate in una delle situazioni critiche ha dovuto ridurre l’attività lavorativa; il 20%, pur non avendo ridotto l’attività, ha affrontato problemi con clienti, colleghi o altre persone della cerchia familiare o amicale; per un 18,8%, invece, l’attività lavorativa si è interrotta; solo il 18,6% afferma che, malgrado la complessità della situazione, l’attività lavorativa non ne ha risentito in alcun modo”.